06 Maggio 2024

Storia

Passeggiare per le spiagge è sempre stato per me un’esperienza gratificante. I colori della sabbia, il movimento delle onde, lo scroscio dell’acqua che arriva sulla battigia rilassano, promuovono riflessioni intime e, nel contempo, ti fanno imbattere in tanti oggetti: legnetti, radici, conchiglie, rami di alberi, pezzi di barche e di utensili vari, brandelli di reti che solleticano la mia curiosità ed immaginazione. E’ come osservare le nuvole e vederci qualcosa: un fiore, un viso, un paesaggio. E così ho iniziato a raccoglierli e a portarli nel mio atelier.

Ogni pezzo racconta una propria storia, fatta di naufragi, di lunghi viaggi, di luoghi remoti , di usi diversi.

Mi piace paragonarli a tanti piccoli ed inconsapevoli Ulisse, approdati sulle nostre coste, stanchi, dopo essere stati trasportati, sbattuti, levigati, erosi e cullati dalle onde chissà da quanto tempo.

Sono legni duri e dolci, piccoli e grandi, chiari e scuri, adagiati ora in questa loro Itaca.

Osservandoli, toccandoli, quasi interrogandoli da dove fossero partiti, ho voluto compiere un’operazione impossibile che solo la magia dell’arte riesce a fare. Ebbene sì, li ho risuscitati, rivitalizzati, dando loro un’anima e persino la parola, e li ho trasformati in ambasciatori e testimoni del tempo. Di quello presente e di quello passato, perché loro di storie ne hanno veramente tante da raccontare.

Parlano di Campi spinati, di Torri crocifisse, di Bambini mai cresciuti (Aylan), ma anche di Viaggi di conoscenza (Ulisse), di Barconi della speranza, di approdi di fratellanza e di solidarietà, di rispetto dell’ambiente, di sviluppo inclusivo e sostenibile.

E allora ascoltiamo con orecchio attento questi loro racconti che suscitano emozioni, meraviglia, speranza, riflessioni. Io ho la possibilità di ascoltarli da vicino, da una posizione privilegiata perché sono accanto a loro con il mio baffo e il pizzetto, a condividere il loro “nostos”, il loro viaggio. Nel loro silenzio così loquace comunicano tanto, arricchendo il mio essere e la mia vita; pur nel loro essere quasi tutte composizioni monocromatiche riescono a colorare questa stagione della mia esistenza, proprio come recita il poeta Tagore:

“Le nuvole giungono fluttuando nella mia vita
non più per portare pioggia
o per annunciare la tempesta,
ma per aggiungere colore
al mio cielo al tramonto.”.

In questa nuova ed inedita avventura,

“il dolce legno scomparso
che fu morso dalle onde
e sdegnato dalla morte.” (Pablo Neruda)

torna così a vivere.



Prefazione al Catalogo "Testimoni del tempo" Comiso 2020

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa…

A questi versi iniziali di una delle più suggestive liriche di Mediterraneo, sezione degli Ossi di seppia, Eugenio Montale affida il suo struggente rimpianto, rivolgendosi al suo e nostro mare: la salsedine mangia, ma al contempo libera da ogni asprezza i detriti che i fiumi hanno portato in dono alla foce. Sono pietre quelle della lirica, che nell’immaginario montaliano si correlano in quanto oggetti concreti a un altro e più misterioso significato: la divina indifferenza, unico possibile deterrente al male di vivere.

Una scheggia fuori dal tempo, risultato dell’incessante lavoro di scarnificazione del mare, è ciò che rimane di qualcosa un tempo vivo, ma che ricomprende in sé tutte le vite che quello stesso mare hanno attraversato. È così anche per i rami i tronchi le radici, che durante le sue passeggiate nei nostri litorali sabbiosi Franco Baglieri raccoglie. Lo immagino tastare quei tronchi, accarezzarli, accostare ad essi il volto e l’orecchio per ascoltare da loro cosa abbiano da raccontare. Sono storie antiche, eppure sempre nuove e presenti: narrano della sete di conoscenza di Ulisse, unico tra i compagni a rischiare la vita pur di sentire il canto delle sirene; di uomini che innalzano un Menhir, impauriti dal mistero che li sovrasta; di donne, uomini e bambini arroccati su uno scoglio, di vedetta contro possibili minacce, o, al contrario, con lo sguardo teso all’orizzonte alla ricerca di un approdo, di una salvezza. Salvezza sì, perché da questi legni scabri ed essenziali grida un’umanità tradita ed umiliata, nei campi di concentramento o nel nuovo sterminio di cui proprio il nostro Mediterraneo è scenario; nella fuga dalla guerra che immola alla violenza brutale gli esseri più innocenti, ai quali Franco Baglieri, in un moto di dolente pietà, restituisce uno scorcio di normalità, facendoli per sempre dondolare su un’altalena. Perché l’arte e l’artista possono tanto, persino risarcirci delle ferite più laceranti, donarci una speranza, sotto forma di una farfalla o di un’altalena, e lenire il nostro dolore di uomini alla deriva in questo infinito universo. La speranza si incarna in maniera ancor più evidente nel gruppo intitolato Maternità o nello Spirito custode, che allarga le sue ali svelando e proteggendo innumerevoli volti.

Al legno, accostato e composto nelle sculture di Franco Baglieri, giustapposto per differenze di colore e consistenza, si uniscono altri materiali, residui organici come radici, ciuffi arsi di alghe o valve di conchiglie, o, ancora, rifiuti che l’uomo getta noncurante in mare, pezzi di rete, fil di ferro e plastica. Ciò che colpisce è il doppio punto di vista assunto dall’artista, che è al contempo colui che osserva e compone la sua opera dall’esterno, vedendola in sé innanzitutto e poi facendola, ma è anche nella quasi totalità delle composizioni interno all’opera stessa. Lo si individua da due particolari quali il baffo e il pizzetto, segni di riconoscimento dell’uomo Franco Baglieri, che come ogni altro essere dotato di una sensibilità particolare mentre vive la vita si osserva e osserva il mondo attorno a lui viverla.

Pregne di vita, nonostante l’apparente aridità della materia, sono queste opere, fatte di un legno che è stato per anni spugna, che ha assorbito e ricompreso in sé chissà quanti palpiti. Ma a maneggiare quel legno ci vuole abilità, e delicatezza, perché esso è tanto denso di sensi quanto fragile. Anzi, fragilissimo, proprio come la vita!


Prof.ssa Maria Rita Schembari
Sindaco di Comiso


Commento al catalogo "Testimoni del tempo" Comiso 2020

Legnetti viaggiatori in transito nel Mediterraneo


Mi voglio soffermare sul concetto attorno al quale ruota la mostra di sculture di Franco Baglieri: il nostos, il ritorno.
Ritornano gli eroi – Odisseo, primo fra tutti, emblematico ed eterno –, ritorna il figliol prodigo, ritorna il soldato dalla guerra – Gennaro Jovine di Napoli Milionaria, come Vincenzo Rabito di Terra matta –, ritorna il salmone risalendo fiumi e cascate, ritorna il subconscio verso felicità perdute. Ritorna l’uomo sui suoi passi, ritorna l’assassino sul luogo del delitto. Tutti prima o poi torniamo verso qualcosa per rivedere una pratica, per dare o ridare un senso alla nostra esistenza, per riappropriarci di qualcosa, per riguadagnarci una dignità, un qualche diritto di tribuna: ma, sia chiaro, il ritorno è periglioso e spesso ci riconsegna ai luoghi sospirati cambiati, irriconoscibili.

Ora, quest’avventura del ritorno così frequente negli esseri animati è possibile che accada anche agli esseri inanimati? Per quel che raccontano i legni restituiti dal mare di Franco Baglieri, a quanto pare sì.

Fra tutti i viaggiatori il legnetto non voleva neanche partire, ma poi il destino è imprevedibile: un temporale, un vento, uno smottamento, un torrente vivo e furioso il tempo d’una tempesta ed eccoti in balia delle onde, nel Mediterraneo. E, infracidito fino al midollo, comincia a impregnarsi di storie, di tempi, di odori: del mare, certo, mostri o acciughine che siano, ma anche di vini dispersi da anfore spaccate nel naufragio, di urla tra fulmini e tuoni e battaglie, di corpi in decomposizione, di spezie e unguenti che dovevano accarezzare gole pretenziose e corpi vanitosi,mache aspetteranno invano la mercanzia preziosa che si è inghiottita l’acqua del mare, dove naviga il legnetto.

Che, a un certo momento, viene sputato sulla spiaggiae il sole lo asciuga sempre fino al midollo, lo alleggerisce, lo rende quasi fossile ma non gli asciuga la memoria, le tante cose che ha visto e sentito, perché ora l’onnipotente mare gli ha dato una cosa che prima non aveva, l’anima e la capacità di raccontare. E se per caso si trovasse sullo spiaggione di Punta Braccetto, che è fra i più belli del mondo, e se per caso ancora passasse Franco che lo raccoglie e mette in saccoccia, il gioco è fatto, inizia una nuova storia.

Presto questo legnetto si accorgerà di non essere solo, che sono in tanti, che non hanno avuto le stesse esperienze ma che vogliono cuntari insieme di sbigottimenti, amori, speranze, conquiste, sorprese, orrori. I legnetti sono diventati antropomorfi e la loro espressività è inevitabilmente ripetitiva, ma insieme riescono a raccontarti vicende perigliose o domestiche, antiche ma anche contemporanee, in una composizione sempre gradevole ed equilibrata.

Baglieri possiede una splendida collezione d’arte africana, sculture soprattutto. L’arte africana ha impressionato generazioni di pittori, anche grandissimi, da Matisse a Basquiat, passando per Pablo Picasso che ne venne a tal punto influenzato da ispirarsi a questa per un intero periodo della sua creatività. E c’è nella scultura del nostro autore una forte impronta primitivistica con una connotazione ironica e autoironica (lui stesso, spessissimo, si ritrae con baffo e pizzetto tra la folla dei legnetti antropomorfi: ospite?commilitone? infiltrato? spia? inviato speciale?).

Se da Istambul vai ad Antiochia in autobus, ti sembra d’attraversare un continente vario e sconosciuto; ma se ad Antiochia ti metti su una terrazza e guardi il mare, svolti l’occhio a destra per cercare il rudere della Torre Vigliena al Braccio della Colombara. Voglio dire che il Mediterraneo è un luogo consueto, familiare, connotato, imparentato, affratellante. E i legnetti antropomorfi di Franco Baglieri

–sostenuti, contenuti, raggruppati ad altri e da altri legnetti –sono fratelli, commilitoni dal destino incerto, sospeso, stupefatti che quella culla di civiltà sia diventato liquame infido e mortale. Un contrappasso lillipuziano dei colossi di Rapa Nui: quelli guardano all’interno dell’isola e la proteggono dai pericoli esterni, questi, all’esterno, cercano protezione e ricovero.

Franco Baglieri è un architetto e un eccellente arredatore. Queste composizioni, lo accennavo prima, hanno gradevolezza e comunicano simpatia. A renderle opere creative è quello struggimento, quella commozione, quello spaesamento che è certo una storia di legni ma, come in Pinocchio, è una storia di vita.

Prof . Giuseppe Digiacomo
Presidente Fondazione "Gesualdo Bufalino"



Non badate a me

Fra le cose che il mare getta
Cerchiamo le più disseccate,
zampe violette di gamberi,
testine di pesci morti,
soavi sillabe di legno,
piccoli paesi di perla,
cerchiamo ciò che il mare ha sfatto
con inutile insistenza,
ciò che ha rotto e squassato
e abbandonato per noi.
Ci sono petali inanellati,
cotoni della tempesta,
sterili gemme d’acqua
e ossa gracili d’uccello
che sembrano ancor volare.
Si svuota il mare delle sue scorie,
il vento gioca con gli oggetti,
il sole ogni cosa abbraccia
e il tempo vicino al mare
conta e tocca quanto esiste.
Io conosco tutte le alghe,
gli occhi bianchi della rena,
le piccole mercanzie
delle maree dell’autunno
e, come un gran pellicano,
edifico umidi nidi,
spugne che adorano il vento,
e labbra d’ombra abissale,
ma nulla è più lacerante
dell’indizio di un naufragio:
il dolce legno scomparso
che fu morso dalle onde
e sdegnato dalla morte.
Bisogna cercare cose oscure
In qualche parte della terra,
in riva al silenzio azzurro
o dov’è passato il treno
di una furiosa tempesta:
restano sogni sottili,
monete di tempo e d’acqua,
detriti, celeste cenere,
e l’ebbrezza intrasferibile
di prender parte ai travagli
della solitudine e della rena.

Pablo Neruda



Commento al catalogo "L'avventura del ritorno: racconti di un lungo viaggio" Mirabella Imbaccari (CT) 2022

Tre testi, uno più bello dell’altro, nel catalogo “Testimoni del Tempo” 2020, raccontano delle opere di Franco Baglieri; riferiscono un ritorno, l’arrivo, l’approdo: la riva salvifica dove il disordine della vita e del mondo finalmente si placano e trovano ordine. La perdita si conclude. Tutto ritorna, ma questa splendida illusione, che la vecchia nutrice vede concretarsi scoprendo la vecchia ferita dell’eroe, a tutti ignoto se non a colei che ne ha accarezzato le membra nel lungo massaggio di cure e d’amore, questa splendida illusione non ha soluzione, non risolve il nostos, poiché tutto è in movimento. Nulla è immobile. Nulla tace. L’eroe deve svolgere fino in fondo il filo delle Moire, ma decidendo lui quando, dove e come tagliarlo: non qui nella patria, poiché solo il mondo tutto è patria. Non territorio, non spazio, ma tempo, continua l’esperienza dell’altro e dell’altrove. Ulisse riparte. Ulisse si muove. Ulisse si reinventa eternamente. Tradisce il punto. Sceglie la linea, la diagonale, l’incerta rotta verso il profondo del proprio pensiero. Si mette in viaggio nei sentieri del pensiero, perché solo il pensare è vita, mentre il termine del viaggio è sonno, è morte.

C’è un’opera, a mio giudizio immortale, che prosegue idealmente il racconto dell’aedo omerico. E’ una decorazione vascolare su una Kylix del V secolo a.c..

Telemaco è di fronte alla madre. Sullo sfondo l’eterna tessitura dell’inganno. Su questo arazzo si proietta l’ombra del giovane eroe. E’ la prima ombra della storia dell’arte. C’è un’ombra nel racconto di Omero, c’è un’ombra nella vita di Telemaco.

Sta interrogando la madre. Deve partire? Deve mettersi in viaggio nel mondo?

Se parte ripete l’esperienza e l’insegnamento del padre. Se rimane, tutto l’insegnamento del continuo incessante cercare sarà stato vano. Certamente Telemaco parte. Lo capiamo dal fatto che si appoggia a due lunghe lance, la dotazione del guerriero. Lo capiamo dall’atteggiamento di Penelope. La testa è china.

Nella postura del malinconico. La madre sa che i figli sempre se ne vanno. La madre sa che ha partorito l’eterna partenza. Nulla si ferma. Sulla riva del mare il relitto diventa materia che si consuma tra la terra e il sole. A meno che il poeta non lo raccolga per farlo viaggiare dentro il sentiero della poesia e dell’arte.

Ernesto L. Francalanci
Critico d'Arte



Commento al catalogo "L'avventura del ritorno: racconti di un lungo viaggio" Mirabella Imbaccari (CT) 2022

“……. e il naufragar
m’è dolce in questo
mare.”

Termina così “ L’infinito “ del sempre più attuale Leopardi e potrebbe essere proprio questo l’afflato di uno dei legnetti di Franco Baglieri.

Un naufragare lento, dolce, in balia di onde “materne”, ormai stanche, dopo essersi battute negli scrosci rumorosi di una rovinosa tempesta. Adesso, soavi, accarezzano tutto ciò che ne rimane e depositano sulla riva le pregresse esperienze di un lungo viaggio. La storia di un legno di mare si può toccare, coglierlo tra le mani con grande stupore, annusarne l’odore impregnato di salsedine, avvertirne la porosità, incappare in una scheggia e destarsi dal sogno, un po' come la vita con gli ostacoli del quotidiano.

Poi, basta chiudere gli occhi e vederlo lì, superstite di un peschereccio che ha perso la sua cassa più proficua, tavole vecchie inchiodate tra loro, o pezzo mancante di una giara in festa che straborda di vino buono, rosso intenso.

Scheggia di uno scrigno, cultrice di mistero, prima di perdersi nella rete di meraviglia che è il mare. Ma la loro storia non finisce sulla sabbia…

Da esistenze senza attesa, senza speranza, dopo avere combattuto la loro dura battaglia, terminata la loro corsa, le attende il miracolo.

Una mano amica li riporta in vita, regala loro una seconda possibilità.

Così, i legnetti antropomorfi di Franco Baglieri, dimentichi del passato e protesi verso il futuro, si rimettono “in gioco”.

Uno sguardo attento, una mano amica, li accoglie, li osserva, li ascolta e li catapulta ad “Auschwitz” in mezzo ad altri suoi simili, dove inserisce anche sé stesso: lo si individua da due particolari quali baffi e pizzetto.

Egli vive e si immerge nel viaggio che decide di compiere.

Non teme neanche l’11 settembre, come suggerisce l’opera “Twin Towers”, emblema di suggestione ed emotività.

Oppure decide di rimettere in mare proprio quel legno e intraprendere una speranzosa traversata, come possiamo cogliere nell’opera “Barcone della speranza”.

La mostra è una raccolta di vita che con ardore l’artista ci ripropone in chiave diversa ma con esplicita lettura. Ogni opera è pura poesia in grado di toccare le corde del cuore. Il loro messaggio equivale a piccole gocce in un mare in tempesta, in grado di dissetare, scaldare ed illuminare il cuore deserto dell’uomo.

Filippa Martines
Presidente Centro Culturale Siculo Tedesco

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